Avere un figlio dopo il tumore

   Salute seno, Tiziana Moriconi, 15/04/2016

NOTIZIE
Ogni anno, nel nostro Paese circa 5 mila donne si trovano ad affrontare un tumore quando potrebbero ancora diventare madri. Oggi esistono tecniche che offrono la possibilità di preservare la fertilità. Facciamo il punto sulla situazione in Italia



La parola è “preservare”. Parliamo di fertilità, e in particolare di quella di circa 5 mila donne che ogni anno si trovano ad affrontare una malattia oncologica prima dei 40 anni, quando potrebbero ancora diventare madri. E parliamo, anche, di preservare la funzionalità delle ovaie: una donna che non abbia il desiderio di avere figli dopo il tumore, potrebbe comunque evitare la menopausa precoce, con tutte le conseguenze psico-fisiche che questo comporta. A volte, infatti, le terapie (in particolare le chemioterapia e la radioterapia alle ovaie) compromettono l'apparato riproduttivo, ma esistono tecniche e farmaci che lo possono salvaguardare. Qual è il percorso che le giovani pazienti oncologiche possono intraprendere oggi in Italia? È semplice accedervi? E quali sono i centri specializzati in oncofertilità a cui queste pazienti possono rivolgersi? Proviamo a rispondere.

Primo step: il colloquio e la presa in carico della donna
Tutto il percorso richiede la collaborazione costante tra gli oncologi e i medici della riproduzione. Il primo step è il counseling multidisciplinare, in cui la paziente incontra sia l'oncologo medico, sia il medico della riproduzione, sia lo psicologo. Non si tratta di un semplice colloquio informativo, ma di una vera presa in carico della donna, che deve avvenire tempestivamente, entro 24-48 ore dalla diagnosi: l'eventuale percorso per preservare la fertilità e la funzionalità delle ovaie, infatti, deve concludersi prima dell'inizio delle terapie oncologiche.

“Ci sono diversi aspetti da valutare”, spiega Enrico Vizza, direttore della Ginecologia oncologica dll'Irccs Regina Elena di Roma, intervenuto durante il convegno Focus Oncofertilità, organizzato a Roma lo scorso marzo in seno alla campagna del Ministero della Salute Futuro Fertile: “Alcuni aspetti riguardano la malattia, come il tipo di tumore, la prognosi, le aspettative di vita, i trattamenti a cui la paziente dovrà sottoporsi. Altri riguardano la sfera riproduttiva: bisogna valutare la riserva ovarica e la potenzialità riproduttiva attraverso alcuni esami del sangue e una ecografia, che di solito vengono eseguiti il giorno stesso del counseling”. In base a questa valutazione e alle esigenze della donna, si stabilirà se proseguire il percorso e quale delle metodologie disponibili sia la più indicata.

Le tecniche per preservare la fertilità e la funzionalità delle ovaie
Le tecniche a cui si può ricorrere sono due: il congelamento (il termine esatto è crioconservazione) degli ovociti e quello del tessuto ovarico: una tecnica non esclude l'altra, ma l'importante è capire quali sono le opzioni più indicate per ciascuna paziente.


Crioconservazione degli ovociti: l'esperienza del Centro di Preservazione della fertilità in oncologia dell’Irccs Ospedale San Raffaele
“Ancora oggi ci sono tantissime barriere per le giovani pazienti”, spiega Giorgia Mangili, responsabile dell’oncologia ginecologica del San Raffaele, che ha contribuito a creare un ambulatorio dedicato alla preservazione della fertilità, parte integrante del Centro Natalità e dell’Unità di Ginecologia e Ostetricia dell’Irccs Ospedale San Raffaele. “La prima barriera è di tipo culturale: le pazienti, i loro parenti e alcuni oncologi spesso non conoscono queste tecniche e quando si parla di stimolazione ormonale – necessaria per il prelievo degli ovociti – si spaventano, pensando che possa essere dannosa, soprattutto per le donne che hanno tumori sensibili agli ormoni (come la maggior parte dei tumori al seno, ndr). Queste paure sono oggi infondate: abbiamo a disposizione metodiche e farmaci che non espongono le pazienti a un maggior rischio di recidive e non peggiorano la prognosi. Un’altra barriera che riduce l’invio delle pazienti ai centri specializzati è rappresentata dal tempo necessario per il prelievo degli ovociti, che è di circa 12 giorni, più il tempo necessario per fissare l’appuntamento e iniziare la stimolazione, col rischio di rinviare troppo l’ inizio delle cure oncologiche. A questo proposito, va detto che non per tutti i tumori è necessario intervenire immediatamente, anche se in alcuni casi invece è molto importante iniziare le cure il prima possibile. Per superare il 'problema tempo' abbiamo creato un percorso che elimina tutte le barriere: non esistono liste di attesa e nei casi veramente urgenti siamo in grado di visitare la paziente ed iniziare le procedure entro 24/48 ore da quando veniamo contattati, utilizzando anche modalità di stimolazione ad hoc".

"Questa possibilità - continua Mangili - favorisce notevolmente l'accesso alla preservazione della fertilità. Circa il 60% delle pazienti che incontriamo hanno i requisiti per accedere a queste cure. Il giorno della presa in carico prevede un primo incontro con la psicologa che aiuta le pazienti a mettere a fuoco le problematiche e le prepara ad ascoltare con maggiore serenità il percorso che dovranno affrontare. Le pazienti, anche giovanissime, vengono seguite da un equipe multidisciplinare, formata da ginecologi oncologi, specialisti della riproduzione e psicologhe dedicate. Per realizzare questo percorso abbiamo impiegato diversi anni ed è stato fondamentale il lavoro di squadra tra ginecologi oncologi, ginecologi e biologi del Centro Natalità e gli psicologi del Servizio di Psicologia clinica e della salute. Oggi si rivolgono a noi anche strutture oncologiche e altri ospedali”.

Crioconservazione del tessuto ovarico: la banca del Centro di oncofertilità dell'Irccs Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma
Ad oggi, nel mondo sono nati circa 60 bambini grazie ad un trapianto di tessuto ovarico prelevato in precedenza. “Si tratta di una tecnica ancora sperimentale, per questo viene eseguita solo in centri con adeguate competenze all’interno di protocolli clinici”, spiega Vizza, che da diversi anni sta lavorando per mettere in piedi la prima banca italiana nata specificatamente per conservare il tessuto ovarico, oltre, ovviamente, a un percorso di accesso dedicato per le pazienti.

La struttura ha ottenuto la certificazione della banca danese che ad oggi ha ottenuto il maggior numero di gravidanze al mondo da re-impianto di tessuto ovarico; vi sono molti criteri di qualità da rispettare, escludere il rischio di reintrodurre cellule tumorali, verificare che il tessuto prelevato contenga effettivamente un alto numero ovociti e dimostrare che sia il congelamento che lo scongelamento vadano a buon fine.

Anche in questo percorso, inoltre, la tempestività è tutto: “Dopo il colloquio e la presa in carico, occorrono soltanto 7 giorni per organizzare il prelievo, per il quale non è necessaria la stimolazione ovarica e che avviene in day hospital, in una operazione mini-invasiva di circa venti minuti per via laparoscopica”, continua Vizza. “Alcune delle pazienti sono bambine o adolescenti: per loro l'unica possibilità è congelare il tessuto ovarico ed è importante garantire che questo possa essere conservato per 10, 20, 30 anni. Anche per le donne giovani che non hanno molta riserva ovarica, il prelievo del tessuto dà delle speranze in più”.

Intanto, i ricercatori stanno lavorando per riuscire, in futuro, a maturare in laboratorio gli ovociti immaturi presenti nel tessuto ovarico: “Con la stimolazione ovarica si riescono a ottenere di norma 5 o 6 ovuli, mentre nel tessuto ve ne sono centinaia. Maturali in vitro non è ancora possibile, ma tra 5-10 anni ci potremmo trovare in uno scenario completamente diverso. Anche per questo è importante che la tecnica sia eseguita in centri di ricerca”.

I centri di oncofertilità in Italia
Ad oggi in Italia ci sono circa una dozzina di centri oncologici con unità dedicate alla fertilità delle giovani pazienti. “Occorrono competenze specifiche per poter conservare per tanti anni del tessuto o degli ovociti, e occorrono altissimi livelli di sicurezza. Non possiamo pretendere che centri e banche così specializzati siano diffusi in modo capillare su tutto il territorio”, ha sottolineato Andrea Lenzi, presidente della Società italiana di endocrinologia (Sie). Ve ne dovrebbe essere uno per Regione o macro-area: pochi, ma buoni. “Affinché siano però sempre facilmente accessibili per le pazienti – continua Lenzi – bisogna organizzare una rete efficiente che li colleghi a tutti gli ospedali”.

“L’attenzione alla fertilità va intesa come uno dei bisogni essenziali del paziente oncologico e tutti i metodi per preservarla dovrebbero essere fruibili attraverso il Sistema Sanitario Nazionale”, ha aggiunto Carmine Pinto, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), che ha inserito i percorsi per la conservazione della fertilità nelle sue linee guida. La Società italiana di endocrinologia, quella di Ginecologia e Ostetricia e l'Aiom stanno anche preparando un documento da presentare alle istituzioni per garantire ai pazienti dei percorsi sicuri e facilmente accessibili.

Medici ben preparati
Contemporaneamente, la Sapienza Università di Roma e Gemme Dormienti - un'associazione nata proprio con l’obiettivo di proteggere la fertilità nei pazienti oncologici e affetti da malattie croniche invalidanti, in particolare donne - hanno dato vita alla prima Scuola di Alta Formazione in Oncofertilità (sostenuta da una donazione liberale di Merck&Co tramite MSD).

Secondo le stime, infatti, nel 2012 soltanto il 4% delle donne con una malattia oncologica ha ricevuto le informazioni sulla salute riproduttiva. “Rispetto a qualche anno fa, oggi la situazione è migliore, soprattutto nei grandi poli oncologici e abbiamo delle eccellenze, sebbene, come sempre accade in Italia, esistano grandi differenze tra le regioni”, spiega Paolo Marchetti, direttore di Oncologia Medica dell'Azienda universitaria Sant'Andrea di Roma e co-direttore della scuola di alta formazione.

A ispirare la nascita di questo percorso teorico-pratico – che è partito ad aprile e che proseguirà per un anno – è stata proprio l'importanza di comunicare alla paziente, in un momento molto delicato della sua vita, la possibilità di intervenire per tutelarla, e di farlo nel modo corretto: “L'ovaio ha una funzione riproduttiva, ma anche di protezione della salute generale: andare in menopausa a 54 anni o a 38 fa una grande differenza e questo le donne hanno il diritto di saperlo. Dobbiamo garantire che tutte queste donne abbiano le stesse possibilità di ricevere le cura più adatta al proprio caso", continua Marchetti: "Per realizzare questo, serve un grande scambio di informazioni: i medici devono conoscere le diverse modalità di preservazione, tutti gli aspetti alla base del danno da farmaco e quelli biologici. E, nondimeno, la psicologia alla base della comunicazione tra medico e paziente per arrivare, insieme, a una scelta ragionata e condivisa”.