E se smettessimo di chiamarlo “cancro”?

   www.healthdesk.it, 29/01/2019

PAROLE CHE CONTANO
Per i tumori a basso rischio ha senso continuare a usare una parola che suscita terrore?

 

Sul British Medical Journal i pro e i contro di una riforma lessicale che è nell’aria da tempo. C’è chi è a favore: è un termine che suscita timori ingiustificati, meglio cambiarlo. E chi contro: le alternative creano ancora più confusione, meglio tenerlo
Spaventa. Sempre e comunque. Anche quando viene presentato come inoffensivo, poco aggressivo, lento e facile da tenere sotto controllo. Non c’è nulla da fare: il termine “cancro” evoca gli scenari peggiori e qualunque diagnosi che lo contenga atterrisce chi la riceve. E allora perché non scegliere una nuova definizione per le forme meno pericolose? Ma basta una semplice riforma lessicale a tranquillizzare i pazienti? Se ne discute sulla rubrica “Head to Head” del British Medical Jpurnal che mette a confronto due opinioni opposte.
Laura J. Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Care Center di San Francisco, è convinta che bisognerebbe smettere di usare la parola “cancro” per i tumori a bassissimo rischio. Al contrario Murali Varma, istopatologo dell’University Hospital of Wales di Cardiff nel Regno Unito, preferisce continuare a chiamare le cose con il loro nome. Riportiamo di seguito le ragioni di entrambi

SE IL RISCHIO È BASSO, NON CHIAMATELO CANCRO
La definizione clinica di “cancro” non contiene nulla di buono. Si tratta di una malattia che in assenza di trattamenti cresce senza sosta e si diffonde ad altri organi distruggendoli. Ma sotto questa voce si trovano forme di tutti i tipi, molto pericolose e poco e per nulla temibili. Lo stesso termine viene usato per descrivere tumori che hanno una probabilità di progredire in vent’anni inferiore al 5 per cento e tumori con il 75 per cento di probabilità di diffondersi nell’organismo in solamente uno o due anni. Molti tumori della tiroide, della prostata e del seno sono lesioni dal rischio bassissimo, afferma Esserman.
Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Si prenda il caso del “cancro al seno”. Esistono forme con alto rischio di recidive precoci che necessitano chemioterapia o terapie biologiche, forme con rischi di recidive tardive che vengono trattate con la terapia ormonale e forme dal rischio così basso che la sopravvivenza a 10 anni anche in assenza di interventi terapeutici è del cento per cento. Circa il 25 per cento delle forme di cancro individuate con lo screening mammografico sono carcinomi duttali in situ (Dcis) che rientrano nella categoria “ultralow risk”.
Ecco allora la proposta di Esserman: in questi casi non usiamo la parola “cancro”, né “carcinoma”, ma ricorriamo alla definizione “lesioni indolenti di origine epiteliale”.
La nuova etichetta non serve solamente a calmare le ansie dei pazienti, ma favorisce le scelte terapeutiche più corrette. Non è infatti facile convincere chi ha ricevuto una diagnosi di cancro a restare in attesa di vedere cosa succede senza prendere nessun provvedimento. La strategia della sorveglianza attiva, consigliata in molti casi di tumore al seno o alla prostata, verrebbe accettata più serenamente sia dai medici che dai pazienti se la diagnosi non contenesse la parola “cancro”. Insomma, conclude Eismann, se non si tratta di cancro perché trattarlo come un cancro? Una nuova definizione aiuterebbe a ridurre il rischio di interventi inutili, più rischiosi della malattia che dovrebbero curare.

SE NON È UN CANCRO, COS’È? LE ALTERNATIVE CONFONDONO E BASTA
Non c’è da fidarsi troppo. In pratica, sostiene Varma, è impossibile conoscere in anticipo con certezza il decorso naturale di qualunque tumore a basso rischio. L’indicazione più affidabile, infatti, la dà l’analisi del tessuto asportato chirurgicamente. Peccato però che la rimozione stessa alteri la struttura del tumore impedendo così di sapere come si sarebbe comportato lasciato crescere all’interno dell’organismo.
Inoltre i termini alternativi rischiano di confondere ancora di più i pazienti.
Definire “tumori dal potenziale maligno incerto” i tumori poco rischiosi della tiroide, per esempio, non è di nessun aiuto. La tradizionale terminologia è più chiara: il cancro è benigno o maligno. Tertium non datur.
Piuttosto che perdere tempo ed energie nell’aggiornamento del dizionario medico, in cerca di nuove e calzanti definizioni, Varma concentrerebbe gli sforzi nell’educazione della popolazione e dei medici. Permettere a tutti di comprendere a fondo una diagnosi di cancro, attribuendo agli aggettivi “maligno” e “benigno” il corretto significato, è molto più utile che mettere mano al lessico.
«La creazione di nuove categorie rischia di creare confusione, l'educazione della popolazione riguardo alla natura del cancro deve essere la priorità», conclude Varma.


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