Nate da un sogno

TESTIMONIANZA DI SARA CALDAROLA

Stefania entrò in laboratorio cercandomi tra i banconi.Voleva iniziare una nuova linea di ricerca e pensava di propormi una nuova collaborazione.
“Sara, se tu fossi una giovane donna malata di cancro” mi disse, “penseresti a salvare la tua possibilità di diventare madre un giorno?”
Rimasi stupita da quella domanda. Non capii subito il nesso tra cancro e fertilità ma parlando mi spiegò di come molti chemioterapici danneggino in modo irreversibile la riserva ovarica precludendo la possibilità di procreare alle donne curate per neoplasie.
Lì per lì non seppi rispondere a quella domanda, anche se l’argomento mi interessava moltissimo da un punto scientifico. Aveva bisogno di un biologo molecolare ed io ero pronta a collaborare.
Mai avrei potuto pensare che da lì a pochi mesi il cancro sarebbe entrato nella mia vita. Carcinoma mammario duttale infiltrante con metastasi linfonodali. Questa era la mia diagnosi, questo il mio verdetto.
Un caldo lunedì di agosto iniziai la mia prima chemioterapia. Ero seduta lì nel reparto di oncologia del Fatebenefratelli di Roma. Sarei dovuta stare seduta per otto lunghe ore.Vedevo il liquido scendere dalla sacca della flebo e immaginavo le migliaia di molecole che, scorrendo nelle mie vene, avrebbero raggiunto le cellule maligne massacrandole una a una. Le conoscevo per nome quelle sostanze. Ne conoscevo il meccanismo, ero a conoscenza della loro efficacia.
Il chemioterapico avrebbe agito seminando morte ma mi avrebbe restituito la vita.
Fu in quel momento di solitudine che ricordai le parole di Stefania. Fu in quel preciso momento che la paura mi assalì lasciandomi senza fiato.
Fino a quel momento no, non ci avevo pensato.
Erano stati giorni difficili quelli successivi alla scoperta della malattia.Tante visite da fare, tanti specialisti da incontrare. Amici e parenti da avvisare, familiari da tranquillizzare. Ero in un vortice di emozioni fatto di sconforto, speranza, dolore, voglia di affrontare la malattia e di tornare a vivere.
Non avevo avuto il tempo di pensare al dopo. Il dopo per ora non esisteva. Esisteva solamente il presente, l’oggi. Esisteva solamente il mostro da combattere e una battaglia da vincere. Il futuro non era contemplato, per ora.
Il futuro non mi apparteneva, pensavo. Esisteva solamente l’oggi col suo dolore e la sua voglia di guarire.
Ma ora lì, seduta sola su quella poltrona in attesa che tutto il liquido pervadesse il mio corpo, ricordai le parole di Stefania. All’improvviso ricordai che la chemio avrebbe salvato la mia vita, ma che molto probabilmente avrebbe pregiudicato la possibilità di diventare madre, un giorno.
E allora no. Non sarebbe stata piena vita, quella. E allora no. Viva sì, ma sterile. E questo non avrei avuto la forza di poterlo accettare.
Ora sì che avevo la risposta da dare a Stefania. Ora avrei potuto dirle che sì, una giovane donna affetta da cancro avrebbe combattuto con tutte le sue forze per sopravvivere, ma con la stessa tenacia avrebbe lottato per diventare madre, un giorno. Una giovane donna poteva accettare i mesi difficili della malattia, ma non la condanna definitiva della sterilità.
Diventai irrequieta su quella poltrona. I minuti non passavano più velocemente come prima. Avrei voluto strappare l’ago incastrato nelle mie vene e scappare via. Avrei voluto risvegliarmi da quell’incubo e scoprire che no, non ero malata. E che sì, avrei avuto dei figli un giorno.
E invece no. Era tutto vero. E allora chiesi alle infermiere di chiamare il mio oncologo. Era di guardia nel reparto ed arrivò subito. Lui si sedette vicino a me. Mi ascoltò pazientemente e decise di aiutarmi. Nessuna delle sue pazienti gli aveva mai chiesto questo tipo di aiuto. Nessuna delle sue pazienti era così giovane da desiderare di guarire dal cancro e di diventare madre, un giorno.
Mi disse che avrebbe fatto di tutto per salvarmi la vita. E ancora di più per realizzare il mio sogno.
Sogno ovvio e banale per molte donne, ma non per me.
Sapeva bene quanto me quali danni il chemioterapico avrebbe fatto alle mie ovaie. Sapeva che la mia possibilità di procreare sarebbe drasticamente diminuita dopo le cure, ma non sapeva con certezza quale farmaco avrebbe potuto aumentare le mie possibilità di maternità in futuro.
Decidemmo insieme di tentare un protocollo sperimentale descritto in letteratura, oggi utilizzato di routine nelle giovani donne sottoposte a cure antitumorali. Ma allora no. Allora l’efficacia di quel farmaco non era ancora accettata dalla comunità scientifica. Fu un salto nel buio quello.
Decidemmo insieme di mettere a riposo le mie ovaie, di proteggere così i miei ovociti e di darmi speranza per il futuro.
Viva sì, sterile no.
Le cure durarono un lungo anno, ma avevo un doppio obiettivo ora: vivere e diventare mamma. E questo doppio stimolo mi diede la forza di alzarmi quando le cure devastarono le mie giornate. Mi diede la forza di affrontare la nausea, la perdita dei capelli, il gonfiore del cortisone, la stanchezza perenne.
Ero in menopausa indotta, ora. E i suoi effetti collaterali resero ancora più difficile sopportare le cure antitumorali alle quali ero sottoposta per sconfiggere la malattia.
Ma tutto quel dolore adesso aveva un senso. Non avevo la certezza che quel farmaco avrebbe funzionato, ma avevo la consapevolezza di star facendo tutto quello che potevo fare per raggiungere il mio scopo.
E ora sono mamma di due bimbe meravigliose. E ora sono viva sì, e fertile. Ora sono la mamma felice, orgogliosa e innamorata di Agnese e Agata. La mia vittoria. Due bambine meravigliose, il mio “esperimento” più riuscito!!!

Sara Caldarola