Nanoparticelle di ferro per mettere un freno al cancro

   HealthDesk, Paolo Gangemi, 29/11/2016

SCOPERTA PER CASO
Un gruppo di ricerca americano ha scoperto, un po’ per caso, che alcune nanoparticelle di ferro riattivano il sistema immunitario contro i tumori


Il ferro non ha effetti miracolosi e immediati come gli spinaci nei fumetti; però, in certe forme, potrebbe rivelarsi di aiuto alle terapie contro il cancro. Lo ha scoperto un gruppo di ricerca americano guidato da Heike Daldrup-Link dell’Università di Stanford (California). I risultati, pubblicati in un articolo sulla rivista Nature Nanotechnology, riguardano un esperimento condotto sui topi, ma gli autori sono fiduciosi che si potranno estendere anche all’uomo.

Le protagoniste dello studio sono determinate nanoparticelle di ferro (particelle di dimensioni nanometriche, cioè dell’ordine dei milionesimi di millimetro): somministrate ai topi, spingono i macrofagi (cellule immunitarie) a distruggere le cellule tumorali. In effetti, i macrofagi tendono spontaneamente ad attaccare le cellule tumorali ma, in presenza di tumori importanti, perdono questa capacità e anzi accelerano la crescita del cancro. È qui che intervengono le nanoparticelle di ferro, riportando i macrofagi alla loro naturale vocazione immunitaria.

I risultati dell’esperimento sono inequivocabili. Gli scienziati hanno suddiviso un campione di topi malati di tumore in tre gruppi. Al primo gruppo è stato somministrato un farmaco chemioterapico con le nanoparticelle di ferro, a un altro gruppo solo le nanoparticelle e al terzo gruppo niente. Sorprendentemente, la crescita dei tumori si fermava non solo nei topi che ricevevano la chemioterapia, ma anche in quelli che ricevevano le sole nanoparticelle di ferro. In seguito, per verificare il ruolo dei macrofagi, gli scienziati hanno effettuato un esperimento in vitro, in cui le nanoparticelle si sono dimostrate efficaci nelle colture cellulari dotate di macrofagi e inefficaci nelle altre.

Il prossimo passo è la sperimentazione sull’uomo. Trattandosi di sostanze già approvate e commercializzate, questa fase potrebbe procedere più rapidamente del solito. Occorre comunque rimanere con i piedi per terra: anche se saranno verificati gli stessi effetti benefici osservati nei topi, non arriveranno improvvisamente cure miracolose. Però si potrà aprire la strada a interessanti possibilità terapeutiche. Per esempio, secondo gli autori dello studio, le nanoparticelle potranno essere usate come farmaci-ponte: potranno essere somministrate a pazienti appena operati di tumore, ancora troppo debilitati per poter sopportare immediatamente una chemioterapia. Oppure potrebbero essere usate per tenere a bada le cellule tumorali residue dopo la rimozione di un tumore non interamente operabile.

Uno degli aspetti più interessanti della scoperta è che è arrivata in modo casuale. Le nanoparticelle in questione erano state realizzate – e già commercializzate – per il trattamento dell’anemia; i ricercatori le stavano utilizzando per vedere se potevano funzionare come vettori di farmaci chemioterapici nei topi, quando si sono accorti che l’effetto era diverso da quello cercato, ma molto più utile. Gli stessi autori non se l’aspettavano: «È stato davvero sorprendente osservare che le nanoparticelle spingessero i macrofagi ad attaccare le cellule tumorali nei topi», ha commentato Heike Daldrup-Link.

È un tipico caso di serendipità, cioè di scoperta fortunosa avvenuta mentre si cercava altro (il caso più clamoroso è la scoperta dell’America). Anche in campo scientifico, e in particolare biomedico, non è certo la prima volta che una scoperta è dovuta a un’osservazione casuale. L’esempio più famoso (e probabilmente il più importante) è la penicillina, che il biologo scozzese Alexander Fleming scoprì nel 1929 osservando che una muffa bloccava la crescita di una popolazione batterica. Un caso più recente è quello del Viagra: un principio attivo studiato contro l’angina pectoris si dimostrò poco efficace, ma in compenso rivelò inaspettati (e benemeriti) effetti collaterali.

La nuova scoperta americana, anche se difficilmente avrà conseguenze così eclatanti, dimostra una volta in più la frequenza ancora oggi della serendipità nella scienza e la necessità di portare avanti la ricerca senza gabbie o barriere, bensì con la massima curiosità verso eventuali fenomeni inaspettati.

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